
Cartelli pubblicitari di fronte all’uscita Interporto dell’autostrada BO-PD.
Bentivoglio, 7 settembre 2015 – foto: kiodo
All’origine della decisione di fotografare onestamente è l’intenzione di raccogliere e passare informazioni, di raccontare ciò che si è capito o ciò che ha destato una curiosità, una riflessione. Dico “fotografare onestamente” e intendo “utilizzare la fotografia per ciò che ha di specifico”, cioè la capacità di testimoniare, con tutte le eccezioni del caso, escludendo le fotografie prodotte per l’ambizione del fotografo di ottenere approvazione. Una foto, come un testo scritto, deve parlare di qualcosa. Se si limita ad essere d’impatto gradevole ha lo stesso valore di una paginetta di calligrafia, e fa meritare un bel bravo! all’autore, e niente più.

(dal blog di Giò Fuga)
Decidere di fotografare un paesaggio significa voler raccontare com’è adesso, secondo le conoscenze e le capacità di analisi del fotografo, più o meno approfondite e notevoli. La foto che si va a produrre avrà, nel tempo, un valore documentale, anche oltre l’intenzione del fotografo.
Chi fotografa riempie il formato a sua disposizione di segni che considera notevoli, degni di essere registrati.
La descrizione di un luogo ha senso se è onesta, coerente con quanto l’osservatore-fotografo ritiene interessante, e non sempre ciò significa piacevole secondo i canoni estetici classici. Escludere, evitare oggetti “antiestetici”, se presenti, equivale a ridurre la quota di informazione che si va a trasmettere.
Anche le considerazioni stilistiche devono essere conseguenti all’intento descrittivo:
L’utilizzo che Shore fa del formato è illuminante: volendo raccontare più aspetti del mondo osservato, volendo trasmettere il maggior numero di informazioni possibile, Shore tende a riempire con oggetti significativi non solo tutti i piani, ma anche tutta la griglia della sua pellicola.
Sarebbe più “bella” questa foto, col cielo tutto blu, ripulito da pali e cartelli? Non saprei, non mi interessa. Di sicuro fornirebbe meno informazioni sulla Los Angeles del 1975, dove un fotografo “esteta” avrebbe dovuto fare i salti mortali per fotografare un paesaggio urbanizzato evitando di inquadrare pali elettrici o insegne pubblicitarie. E se fosse riuscito a ripulire quel cielo, avrebbe ridotto il numero di informazioni raccolte.
Quindi in fotografia il cielo vuoto “non sta bene”? Non è così, questa sarebbe una semplificazione sbagliata. Quello che “non sta bene” è privilegiare l’aspetto estetico, formale, rispetto alla registrazione di informazioni, ove queste siano presenti. Ma quando l’informazione, il valore da comunicare, è proprio il “vuoto”, l’assenza di segni, come la mettiamo?

Carleton Watkins, Yucca Forest, Mojave Desert, ca. 1880. Collection of the Bancroft Library, University of California, Berkeley
Le foto qui sopra sembrano vuote, dal punto di vista dell’impiego del formato, poco dense, ma non sono prive di informazioni, tuttaltro: sono documenti di spedizioni nei territori ancora poco conosciuti del Nordamerica del 1800. Le informazioni da registrare e trasmettere erano esattamente quelle riscontrabili nelle fotografie: territori deserti, piattezza, vegetazione particolare, montagne distanti.
Da notare anche i titoli, che sono parte integrante delle fotografie e del processo di raccolta e trasmissione delle informazioni.

(dal blog di Giò Fuga)